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Assoholding ha preso parte alla consultazione pubblica del Mef concernente lo schema di decreto legislativo di attuazione della direttiva (UE) 2022/2523 del Consiglio del 14 dicembre 2022, intesa a garantire un livello di imposizione fiscale minimo globale per i gruppi multinazionali di imprese e i gruppi nazionali su larga scala nell’unione
Spettabile Ministero dell’Economia e delle Finanze,
Assoholding, nell’accogliere con piacere l’opportunità di confronto dell’Autorità, con tale documento espone le proprie osservazioni circa la consultazione pubblica in oggetto.
Assoholding è l’associazione di categoria delle holding di partecipazione e ha come scopo principale quello di rappresentare gli interessi di queste ultime presso le istituzioni, di svolgere attività di informazione e ricerca sulla normativa di riferimento, sia primaria che secondaria, e di fornire le direttive interpretative sulla legislazione tributaria, affinché sia assicurata la corretta applicazione delle norme da parte degli Associati.
L’Associazione, ringraziando l’Autorità per l’invito, trasmette di seguito le osservazioni – riportate secondo l’ordine di trattazione adottato dalla bozza di decreto – che si permette di sottoporre alla Vostra valutazione.
La Global Minimum Tax rappresenta un tassello fondamentale per la protezione degli investimenti transfrontalieri e per la crescita economica della comunità imprenditoriale mondiale, in quanto la stessa permetterebbe di promuovere delle politiche fiscali sane condivise a livello internazionale e un’amministrazione fiscale semplificata.
La proposta del GloBe necessita di essere dettagliatamente analizzata e revisionata al fine di evitare che la stessa possa discostarsi dai principi cardine della tassazione internazionale attualmente vigenti, creando così delle barriere agli investimenti internazionali e limitando la capacità dei gruppi di imprese di grandi dimensioni di espandere la propria operatività nei vari paesi, di aumentare l’occupazione e di contribuire alla crescita economica globale.
Nel complesso, la valutazione di tale manovra è più che positiva poiché si propone di stabilire un livello minimo di tassazione a livello internazionale. Questo obiettivo, pertanto, mira a scoraggiare le delocalizzazioni fittizie verso giurisdizioni a bassa tassazione e a ripristinare l’equità fiscale che possa ristabilire la fiducia nei sistemi tributari degli Stati membri.
Si può affermare che le priorità emergenti dalla presentazione del presente schema di decreto legislativo, ossia l’implementazione di una struttura normativa che sia in grado di recepire le disposizioni proveniente dall’Unione Europea ma che contestualmente rispecchiano quelli che sono le linee guida della legislazione italiana, sono pienamente in linea con la visione di Assoholding.
Il progetto è, pertanto, di grande rilievo per l’interesse nazionale dell’Italia in cui sono presenti dei congrui livelli di imposizione fiscale. Infatti, le iniziative intraprese dall’OCSE e dall’Unione Europea mirano a contrastare lo spostamento di aziende verso giurisdizioni fiscali più vantaggiose, danneggiando così l’imprenditorialità locale e distorcendo la concorrenza.
L’introduzione della Global Minimum Tax (GMT), dunque, permette di ottenere una maggiore attrattività per tutti quegli Stati che, come l’Italia, mantengono un regime fiscale ordinario e che contemporaneamente possono offrire incentivi fiscali qualificati che non incidono sulla determinazione della GMT.
Proprio per questo si auspica che l’obiettivo di contenere i costi di compliance, specialmente con riferimento ai gruppi nazionali, sia perseguito con continuità e perseveranza anche attraverso confronti con i responsabili fiscali delle capogruppo attraverso l’attivazione di una “cooperative compliance” esclusivamente dedicata a questa disciplina. Tenendo anche in debito conto un criterio di proporzionalità riferita alla complessità e alle dimensioni delle aziende interessate
Va, tuttavia, preso atto che il presupposto di questa imposta minima internazionale è generato da più “fatti”, anche quantitativi, e non da situazioni giuridicamente rilevanti, a partire dalla soggettività tributaria che non è agganciata allo status di persona fisica o giuridica residente in una giurisdizione o collegata al paese della fonte ma al conseguimento di ricavi annui, emergenti dal bilancio consolidato, pari o superiori a 750 milioni di euro. Ecco che le definizioni contenute nell’allegato A del decreto in consultazione assumono precisa rilevanza sia ai fini della rilevazione del “soggetto d’imposta” sia ai fini dell’individuazione del “soggetto di accertamento” e inoltre del “sostituto” dell’eventuale Top Up Tax, richiamando anche i concetti della “solidarietà” e della “responsabilità” tributaria. Circa il presupposto d’imposta la GMT è inoltre ancorata alla fattispecie in cui l’aliquota effettiva (c.d. “Effective Tax Rate” o anche “ETR”) risulti, in una o più giurisdizioni, inferiore al 15% per ogni anno fiscale. Una serie, quindi, di fattori economico – fiscali combinati con fatti giuridici complessi che determinano obblighi tributari sia formali che sostanziali di non facile applicazione. A tal fine e, soprattutto, per garantire il rispetto del principio di proporzionalità (di cui all’articolo 5 del Trattato sull’Unione Europea) rappresentato anche dalla Direttiva, si propone di tenere in debito conto tutte le situazioni specifiche in cui i rischi derivanti dal cosiddetto progetto BEPS (Base Erosion and Profit Shifting) siano ridotti così come avviene, per esempio, con riferimento ai gruppi nazionali dove i costi associati ai dipendenti e al valore delle attività materiali, che riducono il denominatore aumentando automaticamente l’aliquota effettiva della Minimum tax, sono generalmente congrui se non addirittura elevati tali di generare il presupposto d’imposta in un numero di conglomerati aziendali non elevato.
Inoltre, si dovrebbe porre particolare attenzione a quei gruppi multinazionali che comprendono al loro interno imprese che si trovano nella fase iniziale della loro attività al fine di creare un sistema che sia in grado di incentivare lo sviluppo e la crescita di queste ultime.
Per far ciò, la possibilità di escludere tali società dalle regole previste per un periodo minimo di 5 anni o quanto meno concedere loro una revisione agevolata della normativa, dovrebbe essere ragionevolmente realizzata.
A tal fine, l’analisi dovrebbe essere spostata sulla circostanza secondo cui i costi di compliance di un gruppo possano elevarsi in modo esponenziale atteso che non si sia in presenza di un’aliquota d’imposta calcolata su una base imponibile già utilizzata ai fini delle imposte domestiche ma di una percentuale d’imposta derivante da variabili oggetto di un’equazione frazionaria in cui al numeratore si sommano algebricamente, a livello di ogni giurisdizione, una serie di variabili tra cui imposte domestiche, imposte differite attive e passive, nonché le qualified refundable tax credit e al denominatore altrettante variabili che generano la materia imponibile e il cui risultato del rapporto, laddove inferiore a 0,15, genererebbe il presupposto della Top Up Tax dovuta per ogni giurisdizione dove tale risultato non sia uguale o maggiore di 0,15.
Bilancio Consolidato.
Allegato A.
Il verificarsi del primo presupposto per il calcolo dell’aliquota effettiva d’imposta, effettuato a livello di singola giurisdizione, è subordinato alla predisposizione del bilancio consolidato, che integra, per l’appunto, la soggettività tributaria ai fini GMT (art. 3 dello schema di decreto legislativo). A tal fine, non sarebbe superfluo partire dall’assunto secondo cui le finalità di questo documento, espresse tra l’altro dall’articolo 29 del D. Lgs. n. 127/91, sono quelle di rappresentare, in modo veritiero e corretto, la situazione patrimoniale-finanziaria e il risultato economico del complesso delle imprese costituito dalla controllante e dalle controllate. Essendo espressione degli amministratori dell’ente, la responsabilità del perimetro di consolidamento nei confronti dei terzi dovrebbe pertanto rimanere, esclusivamente, in capo a questi ultimi.
Ne conseguirebbe la totale esclusione di ogni ingerenza da parte delle Amministrazioni finanziarie circa la definizione del perimetro di consolidamento utilizzato dalla consolidante e quindi nella scelta del principio contabile utilizzato a tal fine, purché conforme con la normativa vigente. Si suggerisce, dunque, di inserire nel decreto un elenco contenente tutti i principi contabili ammessi per la definizione del perimetro di consolidamento.
Occorrerebbe, inoltre, precisare che la nozione di “impresa consolidante” (che attualmente manca tra le definizioni di cui all’allegato A) rilevante ai fini di questa normativa è esclusivamente quella ritraibile dai principi contabili conformi e dunque, che, come evidenziato all’interno della Direttiva comprendono “le entità le cui attività, passività, ricavi, costi e flussi di cassa sono inclusi nel bilancio consolidato della capogruppo”. Alla luce di ciò e ai fini della definizione del perimetro del consolidato, tutte le norme di derivazione civilistica, fiscale e le norme speciali che disciplinano le “partecipazioni di controllo” come rappresentate al punto 38 dell’Allegato A e le “controllanti capogruppo” che sono, invece, rappresentate nelle definizioni di cui al n. 6 all’allegato A non possono che fare da corollario al più ampio raggio di azione che i principi conformi adottati hanno ai fini della decisione circa il perimetro di consolidamento.
Ne consegue che non dovrebbe essere possibile incardinare alcuna contestazione con riferimento al perimetro di consolidamento definito dal gruppo multinazionale o nazionale e ciò non solo con riferimento alla libera scelta del principio contabile che, laddove applicabile, consente, in Italia, con riferimento ai gruppi non quotati, di scegliere liberamente tra i principi nazionali, emanati dall’Organismo Italiano di Contabilità (O.I.C.), e quelli internazionali, emanati dall’International Accounting Standards Board (I.A.S.B.), ma anche con riferimento alle valutazioni dell’organo amministrativo dell’ente di riferimento circa l’eventuale presenza o meno dell’influenza dominante nella tipologia in cui, secondo alcuni principi contabili, genera l’obbligo di consolidare la società assoggettata a tale dominio.
La questione non è di poco conto atteso che non solo il consolidato genera il primo presupposto di appartenenza al sistema della GMT ma anche la condizione di dover sostenere o meno l’integrazione d’imposta a livello di giurisdizione.
Quanto sopra dovrebbe essere oggetto di chiarimento, soprattutto con riferimento ai gruppi nazionali.
Al solo scopo di rendere immediata la percezione di quanto sia articolata la nozione di controllo nel nostro ordinamento, elenchiamo di seguito alcune delle più importanti norme di riferimento:
È appena il caso, quindi, di rendere completamente autonome le previsioni contenute nelle suddette norme rispetto a quanto contenuto nei principi contabili “conformi”. È del tutto evidente, ad esempio, che un’impresa possa essere genericamente considerata controllante ai fini del transfer pricing ma non ai fini del bilancio consolidato. La nozione di controllo, definita all’interno del decreto del 14 maggio 2018 – contenente le linee guida per l’applicazione delle disposizioni previste dall’art. 110, co. 7, del T.U.I.R. – appare, infatti, più ampia rispetto a quella desumibile dal Modello OCSE, in quanto, da un lato, richiama la partecipazione agli utili e, dall’altro, assegna genericamente rilevanza ai “vincoli contrattuali”. Ciò in quanto, in coerenza con la ratio della normativa in materia di transfer pricing e considerato che nei casi in cui l’influenza dominante possa derivare da contratti di agenzia, franchising e fornitura, i prezzi pattuiti tra le parti non si allontanano dal valore di mercato per effetto di politiche di trasferimento di imponibili all’interno di un “gruppo”, bensì per effetto del disequilibrio del peso contrattuale tra le parti.
È, pertanto, indiscutibile, che, nella fattispecie a esempio, il concetto di controllo di cui all’art. 110, co. 7 del T.U.I.R., rappresentato dal citato decreto, non possa e non debba essere ritenuto un punto di riferimento ai fini della definizione della controllante capogruppo che deve restare, si ribadisce, circoscritto esclusivamente a quello ritraibile dai principi contabili, nazionali ed internazionali e ciò anche con lo scopo di non rischiare “asimmetrie” idonee a generare una doppia imposizione internazionale.
Chiarito ciò, non è superfluo, inoltre, evidenziare come l’individuazione del perimetro di consolidamento, ossia di quelli che sono i confini dell’entità cui si riferisce la redazione del bilancio consolidato, differisca a seconda di quale principio contabile adottino gli enti coinvolti, purché “conformi”.
Infatti, mentre gli standard setter nazionali optano per un approccio di natura giuridico-formale, quelli internazionali, invece, richiedono l’adozione di un approccio economico-sostanziale, attraverso il quale sia possibile mettere in risalto una coordinazione sistemica di tipo aziendale.
Più nel dettaglio, il principio contabile nazionale O.I.C. 17, ancillare rispetto al codice civile, al paragrafo 38, stabilisce che “sono oggetto di consolidamento (e, quindi, formano la c.d. “area di consolidamento”) le imprese controllate come definite dall’art. 26 del D.lgs. n. 127/1991”. Quest’ultima disposizione fa riferimento ai numeri 1) e 2) dell’art. 2359 del Codice Civile (escludendo, dunque, l’influenza dominante sulla base di particolari vincoli contrattuali di cui al numero 3), ma considera comunque controllate:
Ai fini della verifica delle condizioni di cui sopra si considerano anche i diritti spettanti a società controllate, a società fiduciaria e per interposta persona. Non si considerano, invece, i diritti spettanti per conto di terzi.
Dalle considerazioni sopra esposte è possibile evidenziare come, in ambito nazionale, l’approccio per la definizione dell’area di consolidamento sia prettamente di natura formale, in quanto legato a situazioni giuridiche che esulano da analisi sostanziali delle entità aziendali di riferimento.
Passando ad un’analisi dell’ambito internazionale, invece, il principio contabile
I.F.R.S. 10, “Consolidated financial statement”, le cui modalità operative sono contenute all’interno dell’I.F.R.S. 3, individua l’area di consolidamento seguendo un approccio decisamente più sostanziale rispetto alla normativa nazionale, in quanto il concetto di controllo, ossia il criterio utilizzato come base per il consolidamento, si basa esclusivamente sull’analisi sostanziale delle entità coinvolte, senza alcun tipo di rinvio normativo.
L’I.F.R.S. 10, infatti, stabilisce che un investitore controlla un’entità oggetto di investimento e, dunque, è tenuto a consolidare la stessa, se e solo se ha contemporaneamente:
Con riferimento al punto a), il principio contabile internazionale specifica come il concetto di “potere” debba essere interpretato nel senso che l’investitore ha dei diritti (e, dunque, non necessariamente partecipazioni al capitale sociale) che gli consentono di dirigere le attività rilevanti della controllata, ossia quelle attività che influenzano in modo significativo i rendimenti dell’investitore. Tale potere, dunque, nella situazione più lineare può derivare dalla disponibilità di diritti di voto, così come potrebbe derivare, ad esempio, dalla presenza di accordi contrattuali.
Con riferimento al punto b), il principio contabile internazionale chiarisce come i rendimenti sono variabili nel momento in cui gli stessi sono legati alle performance dell’entità controllata, ossia sono suscettibili di variare in base all’andamento economico dell’entità oggetto di investimento.
Con riferimento al punto c), invece, l’I.F.R.S. specifica che, affinchè ci sia il controllo, non è solo necessario avere il potere sull’entità ma anche la capacità di usare quel potere per influenzare i rendimenti dell’investitore che derivano dal suo coinvolgimento nell’entità controllata.
Solo la presenza congiunta di questi tre requisiti, dunque, determina un rapporto di controllo e, di riflesso, la necessità – per l’entità controllante – di presentare un bilancio consolidato.
In conclusione, dalle analisi sopra esposte, è stato possibile rappresentare come l’area di consolidamento è determinata in modo diverso a seconda dei principi contabili adottati per la redazione del bilancio consolidato. La scelta di tali principi, almeno nei casi in cui la stessa risulti essere facoltativa, non si ritiene, si ribadisce, possa essere sindacata da parte dell’Amministrazione finanziaria.
Definizione di controllante capogruppo.
Possibile disallineamento che potrebbe determinare delle problematiche in tema di individuazione del presupposto soggettivo per l’applicazione della GMT.
L’art. 3, co. 1 dello schema di decreto legislativo, concernente l’ambito applicativo della GMT, stabilisce che “le disposizioni del presente decreto si applicano alle imprese localizzate in Italia che fanno parte di un gruppo multinazionale o nazionale con ricavi annui pari o superiori a 750 milioni di euro, ivi compresi i ricavi delle entità escluse di cui all’articolo 4, risultanti nel bilancio consolidato della controllante capogruppo in almeno due dei quattro esercizi immediatamente precedenti a quello considerato”.
La definizione n. 3 di cui all’allegato A, invece, stabilisce che per bilancio consolidato debba intendersi “il bilancio predisposto da una entità secondo un principio contabile conforme, in cui le attività, le passività, i componenti positivi e negativi di reddito e i flussi di cassa di tale entità e di qualsiasi entità in cui essa detiene una partecipazione di controllo sono indicati come quelli di un unico soggetto economico […]”, mentre la definizione n. 6 stabilisce che per controllante capogruppo deve intendersi:
Tenuto conto delle considerazioni di cui sopra, Assoholding evidenzia come l’attuale schema di decreto legislativo, comprensivo dell’allegato A, presenti un disallineamento che potrebbe determinare delle problematiche, in prima battuta, in tema di individuazione del presupposto soggettivo per l’applicazione della GMT e, successivamente, in sede di individuazione dei valori determinati per il calcolo dell’ETR.
Infatti, partendo dall’assunto secondo cui, come ribadito dalla definizione n.3), il punto di partenza nella determinazione dell’imposta minima globale è rappresentato dal bilancio consolidato redatto secondo un principio contabile conforme, è appena il caso di evidenziare come sia i principi contabili nazionali, emanati dall’Organismo Italiano di Contabilità (O.I.C.), che quelli internazionali, emanati dall’International Accounting Standards Board (I.A.S.B.), non richiedono necessariamente la presenza di un partecipazione di controllo per l’inclusione di un’entità nell’ambito dell’area di consolidamento.
Allo stesso tempo, però, le disposizioni riguardanti l’applicazione dell’imposta minima (su tutti, l’art. 6 dello schema di decreto legislativo) fanno espresso riferimento alla presenza di una partecipazione di controllo, diretta oppure indiretta. In questo modo, dunque, tenuto conto dell’attuale impostazione normativa, potrebbero emergere delle situazioni di non coerenza circa la correlazione tra le entità da considerare ai fini del calcolo della soglia rilevante dei 750 milioni di euro, in quanto, in questo caso, il riferimento è rappresentato dal bilancio consolidato redatto secondo i principi contabili conformi, e quelle da attenzionare nell’ambito delle verifiche dei livelli di reddito ed imposizione effettiva. Infatti, così come da definizione riportata all’interno della direttiva, le entità costitutive sarebbero determinanti ai fini del computo della soglia rilevante per l’accesso al regime della GMT, mentre, ai fini dell’imposta integrativa, viceversa, dovrebbe farsi riferimento alle sole partecipazioni di controllo. Pertanto, Assoholding riterrebbe, innanzitutto, opportuno un chiarimento sul tema sollevato circa le entità costitutive e la correlazione tra entità che detengono il controllo di altre società consolidate in virtù di quanto disposto dal principio I.F.R..S 10 al fine di rendere maggiormente omogenea la disciplina.
Si propone, di seguito, un esempio in termini matematici per evidenziare il concetto:
Da ciò si evince che X rappresenta una condizione sufficiente per consolidare ma non sempre necessaria rispetto al verificarsi dell’enunciato Y. Ciò in quanto, secondo le differenti tipologie di definizione di controllo presenti nel nostro ordinamento, una società può procedere al consolidamento anche in assenza di partecipazioni di controllo. Infatti, in virtù di specifici vincoli contrattuali è possibile che una società disponga del controllo di un’altra società e, dunque, possa procedere al consolidamento di quest’ultima.
Pertanto, la condizione necessaria e sufficiente affinché si verifichi il presupposto impositivo disciplinato dalla normativa relativa alla Global Minimum Tax è verificata solo ed esclusivamente in caso di sommatoria tra X ed Y, ossia quando si è in presenza di una società che disponga del controllo delle partecipate (anche in seguito a specifici accordi contrattuali e non necessariamente per il possesso di partecipazioni di controllo).
Per tale motivo, si ritiene che il continuo richiamo al concetto di controllo (i.e. “controllante capogruppo” all’interno dell’art. 3 dello schema di decreto legislativo) possa generare delle incertezze applicative rispetto a quelle situazioni in cui, invece, l’inclusione di un’entità all’interno dell’area di consolidamento prescinda dalla presenza di partecipazioni di controllo o, addirittura, dalla presenza di rapporti partecipativi. Infatti, a titolo esemplificativo, focalizzando l’attenzione sui gruppi internazionali, nel paragrafo precedente è stato evidenziato come il consolidamento di un’entità possa derivare anche dalla sola presenza di accordi contrattuali come, ad esempio, può avvenire attraverso il contratto di dominio ammesso in Germania.
Lasciare un generico rinvio alla definizione di “partecipazione di controllo”, induce comunque le imprese a rifarsi a quelle altre definizioni previste dall’ordinamento italiano, nel quale, è opportuno sottolineare, sono presenti, come sopra evidenziato, una moltitudine di nozioni di controllo, declinate dalla disciplina codicistica e da quelle settoriali.
La dottrina ha da sempre tentato di ricostruire una nozione unificante dell’istituto del controllo nelle società di capitali senza, tuttavia, riscontrare una linea coerente, sebbene le diverse fattispecie di controllo risultino avere tratti comuni. Il legislatore risulta, infatti, mancante di coerenze sul tema, forse volutamente, dovendo formulare locuzioni sempre diverse funzionalizzate ai diversi scopi perseguiti (sebbene la legislazione di settore si riferisca costantemente alla nozione del controllo ai sensi dell’art. 2359 c.c.). Inoltre, con la riforma del 2003, il legislatore lascia all’interprete libertà sulla definizione di gruppo di imprese, non riscontrandosi nell’art. 2497 c.c. una soluzione basata sull’individuazione degli elementi giuridici su cui si sostanziano le attività di direzione e coordinamento.
Ai sensi dell’art. 2359, co. 1, c.c. (1), l’ordinamento prevede tre tipologie di controllo, ovvero di società controllate:
Analizzando il controllo di fatto, lo stesso attiene all’ipotesi in cui il controllo sull’impresa è esercitato, pur sempre in forza del possesso azionario diretto o indiretto, con una percentuale diversa da quella maggioritaria. La struttura di questa ipotesi di controllo non si ancora, dunque, sulla maggioranza dei voti esercitabili in assemblea ordinaria, bensì su un numero di voti ritenuto sufficiente caso per caso ad esercitare un’influenza dominante sulla stessa.
Accanto alle ipotesi descritte, nelle quali il denominatore comune è dato dalla circostanza che il controllo societario è comunque ottenuto tramite l’esercizio del diritto di voto in assemblea ordinaria, il legislatore considera la fattispecie in cui l’influenza dominante su un’altra società è conseguita in virtù di particolari rapporti contrattuali, che pongono una società in una situazione obiettiva di dipendenza economica tale da condizionarne l’esistenza e la sopravvivenza.
Esistono, poi, altre situazioni in cui il controllo viene esercitato da una pluralità di soggetti che, per effetto di accordi tra essi intercorrenti, possono realizzare un’influenza dominante. Tale ipotesi, definita «controllo congiunto», è stata, però, ritenuta maggioritaria dalla dottrina e dalla giurisprudenza, invece, estranea rispetto alla fattispecie disciplinata dall’art. 2359 c.c., in quanto si ritiene che quest’ultima si riferisca esclusivamente ad un controllo «monocratico».
In altri casi ancora si è parlato di «controllo misto» e tale è stato ritenuto il controllo esercitato in parte attraverso azioni possedute direttamente e indirettamente dalla controllante.
Il sopramenzionato art. 2359 c.c. non esaurisce le tipologie di controllo presenti nell’ordinamento giuridico italiano. La legislazione di settore pone discipline speciali inerenti a più diversi ambiti.
La nozione di controllo riportata nel T.U.B., invece, è prevista dall’art. 23 che si richiama in primis all’art. 2359 c.c., specificando, tuttavia, che dal punto di vista soggettivo la fattispecie non si riferisce in via esclusiva alle società. Inoltre, a norma dell’articolo in esame il controllo si configura in presenza di contratti o clausole statutarie che abbiano ad oggetto od effetto il potere di esercitare l’attività di direzione e coordinamento.
L’art. 23, co. 2 del T.U.B. prevede, infine, una serie di presunzioni di sussistenza della relazione di controllo aventi valore per lo più esemplificativo e di ausilio all’interprete.
Le esemplificazioni poste dall’art. 23 comma 2 T.U.B. hanno la caratteristica di ricomprendere tutte le fattispecie possibili di fenomeni di controllo, con una tecnica legislativa lontana dal rigore terminologico e dalla sintesi concettuale che si riscontrano nell’art. 2359 c.c.
Infatti, secondo l’art. 23 del T.U.B., il controllo sussiste nei casi previsti dall’art. 2359, commi 1 e 2, c.c., (disponibilità della maggioranza dei voti esercitabili nell’assemblea ordinaria, disponibilità di voti sufficienti per esercitare un’influenza dominante nell’assemblea ordinaria e influenza dominante in virtù di particolari vincoli contrattuali) e in presenza di contratti o di clausole statutarie che abbiano per oggetto il potere di esercitare l’attività di direzione e coordinamento.
Salvo prova contraria, il controllo si presume nella forma dell’influenza dominante nelle seguenti situazioni:
Infine, la nozione di controllo disciplinata dall’art. 93 del T.U.F., invece, è strumentale all’applicazione di numerose disposizioni della stessa legge che disciplinano aspetti delle società con azioni quotate in mercati regolamentati.
Oltre al rinvio alle previsioni dell’art. 2359 c.c., l’art. 93 del T.U.F. prevede due fattispecie specifiche: il controllo in virtù di un contratto o di una clausola statutaria ed il controllo che ricorre quando un socio, in base ad accordi con altri soci, dispone da solo di voti sufficienti ad esercitare un’influenza dominante in sede di assemblea ordinaria. In tale ultima ipotesi, è prevista in sostanza un’ipotesi di controllo di fatto discendente da accordi con altri soci, definibili come fattori di potenziamento della partecipazione del socio di controllo (tali accordi possono essere qualificati quali patti parasociali, in particolare i sindacati di voto).
La Consob ha, inoltre, avuto modo di affermare il principio secondo cui l’influenza dominante si manifesta, mediante l’esercizio del voto in assemblea ordinaria, nel potere di nominare e revocare la maggioranza degli amministratori o di determinare, anche attraverso l’approvazione annuale del bilancio d’esercizio, un generale indirizzo della gestione. Nell’impostazione assunta dalla Consob – tenuto conto che l’art. 93 del T.U.F. esclude l’ipotesi del controllo esterno basato su contratti di natura commerciale – il potere di nomina e di revoca della maggioranza degli amministratori rappresenta il solo strumento fondamentale attraverso il quale è possibile influenzare le decisioni assunte dall’organo di amministrazione che riguardano la gestione della società.
Al fine di sviluppare un solido coordinamento con il Globe anche la normativa del
T.U.F. dovrebbe prevedere un rinvio alla definizione di controllo dettata dagli IAS/IFRS, in modo tale da avere, a differenza di quanto accade oggi, un’unica definizione di controllo per le società quotate, valevole sia ai fini della redazione dei conti consolidati sia ai fini dell’applicazione di tutte le norme in materia di trasparenza degli assetti proprietari, informativa price sensitive, corporate governance e obblighi di OPA.
Altra criticità è legata al fatto che, mentre i principi contabili internazionali si applicano alle sole società che fanno appello al mercato del capitale di rischio, l’art.93 del T.U.F. si applica, ad esempio, anche a società non quotate che abbiano rilevanti partecipazioni in società quotate.
Inoltre, l’art. 93 co. 1, lett. a) del T.U.F. fa riferimento ai cosiddetti contratti di dominio che in Germania, ad esempio, sono ammessi ma possono generare problemi di controllo ed eventualmente di consolidato da parte di una Holding con rilevanti partecipazioni in quotate.
Indicare, all’interno dello schema di decreto legislativo, una definizione che si discosti dall’ipotesi in cui il controllo si verifichi solo in presenza del possesso di partecipazioni, al fine di uniformare la disciplina domestica con la normativa vigente in altri paesi.
Gruppi nazionali e Cooperative compliance.
Allegato A.
Estendere la Cooperative compliance anche ai gruppi nazionali che presentano ricavi superiori a 750 milioni di euro.
Sebbene siano da scoraggiare pratiche di elusione fiscale, secondo la Direttiva si dovrebbero evitare ripercussioni negative sui gruppi multinazionali di imprese di dimensioni più modeste sul mercato interno.
A tal fine, soprattutto con riferimento al “gruppo nazionale” con ricavi annui superiori a 750 milioni di euro, andrebbe dedicato un articolo specifico a parte.
In coordinamento con i decreti delegati della riforma fiscale, sarebbe auspicabile estendere la Cooperative compliance ai gruppi nazionali (ma anche, con alcuni accorgimenti, a quelli internazionali) che superano la soglia dei 750 milioni di ricavi. Tale regime si pone l’obiettivo di creare un rapporto di fiducia tra l’Amministrazione finanziaria e il contribuente che miri ad aumentare il livello di certezza sulle questioni fiscali rilevanti per il tramite di un confronto costante e preventivo tra i due soggetti su tutti quelli che sono gli elementi di fatto al fine di ridurre la possibilità di generare rischi fiscali. Tale regime prevede, infatti, diversi aspetti premiali tra cui per esempio la possibilità di proseguire con una procedura abbreviata di interpello preventivo, l’applicazione di sanzioni ridotte alla metà e l’esonero dal presentare delle garanzie per i rimborsi.
Secondo le attuali condizioni previste per l’accesso al regime di adempimento collaborativo, così come definite dal D.M. del 31 gennaio 2022, affinché si possa accedere è necessario che i soggetti residenti e non residenti realizzino un volume d’affari o di ricavi non inferiore ad 1 miliardo di euro. Pertanto, alla luce di quanto appena esplicato, in coordinamento con la delega per la riforma tributaria, sarebbe auspicabile e funzionale diminuire sicuramente la soglia prevista a 750 milioni di euro affinché tutti i soggetti coinvolti nella fattispecie della Global Minimum Tax possano accedervi liberamente e senza particolari vincoli (si ricorda che tali imprese rappresentano circa l’80% delle entrate IRES in Italia) nonché, possibilmente prevedere, su richiesta, di accedere alla cooperative compliance anche solo per l’applicazione delle regole GMT.
Infatti, in tal senso, tramite l’applicazione di un’imposta minima globale che garantisce una riduzione degli spazi di competizione fiscale aggressiva, dovuta dai
c.d. paradisi fiscali e, dunque, un cospicuo incremento degli investimenti in Italia, il regime dell’adempimento collaborativo acquisisce un ruolo e un significato di rilevanza strategica.
Grazie a tale strumento, infatti, le società riescono a interagire ex ante con l’Amministrazione finanziaria su possibili normative poco chiare e difficilmente interpretabili, riducendo così di gran lunga la possibilità di ricevere accertamenti o di effettuare delle migliorie sui propri documenti contabili e sulle proprie rilevazioni di voci in bilancio (quali a titolo esemplificativo quelle relative all’iscrizione di “evitabili” fondi rischi ed oneri).
Pertanto, l’estensione del regime della cooperative compliance anche a tutte quelle imprese che, a partire dal 1° gennaio 2024, saranno coinvolte nel campo di applicazione della Global Minimum Tax, rappresenterebbe un’ulteriore pista di decollo per l’intera economia italiana, sia da un punto di vista di maggiori investimenti da parte di imprese estere, e sia, soprattutto, da un incremento di investimenti in Italia da parte di imprese domestiche che purtroppo, spesso e volentieri, sono costrette, anche da pressioni di shareholders e stakeholders non residenti, a spostare la propria sede all’estero anche per la complessità della normativa fiscale italiana poco chiara su alcune specifiche tematiche fiscali.
Rendere maggiormente attrattivi gli investimenti in Italia da parte di gruppi esteri ed evitare che i gruppi italiani trasferiscano la propria sede all’estero in conseguenza della complessità di comprensione di alcune norme fiscali.
Imposta minima nazionale.
Art. 11, co. 8 dello schema di decreto legislativo.
Mancanza di una parte dedicata esclusivamente ai gruppi nazionali.
L’introduzione dell’imposta minima nazionale (QDMTT) ha come obiettivo quello di consentire, ai soggetti rientranti nel campo di applicazione Globe, il recupero di un’eventuale Top-Up Tax direttamente in Italia evitando così che la stessa possa neutralizzare, per il tramite dell’attribuzione di diritti impositivi ad altri Paesi, i differenti benefici fiscali concessi dalla normativa domestica vigente.
Ai fini di tale imposta e preso atto degli approfondimenti in corso in merito alla scelta di non applicare le disposizioni di cui all’art. 49, così come disposto dal comma 8 dell’art. 11 dello schema di decreto legislativo in oggetto, sarebbe auspicabile inserire un articolo dedicato esclusivamente ai gruppi d’impresa nazionali, anche e soprattutto in coordinamento con la proposta di consentire la possibilità di esercitare l’opzione per la determinazione dell’imposta minima sul bilancio consolidato, tenuto conto delle transazioni intercompany ai sensi dell’art. 16 co. 15.
Inserire un articolo dedicato esclusivamente ai gruppi d’impresa nazionali, soprattutto al fine di consentire loro di esercitare l’opzione per la determinazione dell’imposta minima sul bilancio consolidato.
Coordinamento con consolidato fiscale nazionale.
Scarso coordinamento tra la Global Minimum Tax sul consolidato fiscale ed il regime della tassazione di gruppo.
Ai sensi del comma 15 dell’articolo 16 dello schema di decreto legislativo, la controllante capogruppo può scegliere, in conformità con le previsioni di cui all’articolo 45, co. 1, l’applicazione del trattamento contabile consolidato, ai fini della determinazione dell’importo netto del reddito o perdita rilevante delle imprese localizzate nel medesimo Paese e ivi soggette ad un regime di tassazione di gruppo. L’opzione di cui al precedente periodo comporta l’elisione di tutte le componenti positive e negative di reddito generate da operazioni intervenute tra le suddette imprese partecipanti nel Paese al regime di tassazione di gruppo. Nell’esercizio con riferimento al quale l’opzione di cui al primo periodo è stata esercitata e nell’esercizio con riferimento al quale essa è revocata, devono essere apportate le opportune modifiche al reddito o perdita rilevante delle imprese interessate al fine di evitare l’insorgere di fenomeni di doppia inclusione ovvero di doppia non inclusione delle componenti reddituali da considerare ai fini della determinazione del reddito o perdita rilevante.
Tenuto conto che con la Global Minimum Tax il bilancio consolidato ha comunque assunto, ai fini di questa imposta, una valenza fiscale, sarebbe auspicabile che l’opzione di cui sopra possa essere esercitata anche laddove il Paese (come anchel’Italia) non preveda, ai fini della tassazione di gruppo, la base imponibile generata da un bilancio consolidato.
Altresì, tenuto conto delle norme domestiche sul consolidato fiscale nazionale, sarebbe estremamente positivo un coordinamento con gli accordi di consolidamento, i quali definiscono i criteri di ripartizione, tra le società partecipanti al consolidato fiscale, dei benefici e degli oneri conseguenti. Tali accordi si pongono diversi obiettivi tra cui a titolo esemplificativo quello di regolare specificatamente i tempi e le modalità dello scambio delle informazioni necessarie per il consolidamento e per il trasferimento del denaro, le modalità di determinazione delle compensazioni da riconoscere alle società che hanno sostenuto le perdite fiscali e che le hanno trasferite nell’ambito del consolidato.
Con riferimento a questi accordi, pertanto, sarebbe auspicabile una miscelazione tra l’applicazione della Global Minimum Tax sul consolidato fiscale nazionale ed il regime della tassazione di gruppo e ciò, soprattutto, tenuto conto della responsabilità fiscale delle consociate localizzate in una delle giurisdizioni aderenti di dover sopportare un’imposta suppletiva in sostituzione di un’altra consociata su cui si è verificato il presupposto della Top Up Tax.
Tutto ciò tenuto comunque conto che, al fine di poter procedere a tale meccanismo di miscelazione, è opportuno che la consolidante possieda almeno il 51% dei diritti di voto nell’assemblea della consolidata.
Ciò, infatti, consentirebbe anche di gestire al meglio l’imposizione differita attiva sulle perdite subite dalle società consolidate, compensate con la casa madre, e rilevanti ai fini del calcolo dell’aliquota effettiva ai fini della Top Up Tax.
Creare una miscelazione tra l’applicazione della Global Minimum Tax sul consolidato fiscale nazionale ed il regime della tassazione di gruppo.
Operazioni straordinarie, coordinamento tra periodo fiscale, residenza e consolidamento dei dati.
Capo V, articolo 26 dello schema di decreto legislativo.
Analizzando il principio O.I.C. n. 4, in caso di operazione straordinaria di fusione, è necessaria la redazione di un bilancio di sintesi dei valori contabili che vengono trasferiti nella contabilità dell’incorporante o della società risultante dalla fusione e che, pertanto, rappresentino i fatti di gestione delle società partecipanti all’operazione straordinaria fino alla data in cui le stesse confluiscono nella incorporante o nella società risultante dalla fusione. Allo stesso modo, anche con riferimento alle operazioni straordinarie di scissione, sia l’O.I.C. che la prassi vedono indispensabile la formazione di un bilancio infrannuale.
Pur nel silenzio del legislatore, tenuto conto della giurisprudenza e della dottrina sul punto, tale situazione patrimoniale è un vero e proprio bilancio ordinario infrannuale composto da stato patrimoniale e conto economico.
In aggiunta a ciò, poi, è da precisare come spesso, sia con riferimento alle scissioni che alle fusioni, il procedimento di formazione del bilancio di chiusura è influenzato dalla presenza o meno dalle clausole di retroattività degli effetti dell’operazione straordinaria, la quale determinerebbe particolari considerazioni in materia di efficacia reale della scissione, di retroattività reddituale, contabile e fiscale.
A complicare tale meccanismo poi, soprattutto ai fini del presente elaborato, vi è la particolare fattispecie in cui, nell’ambito di un’operazione straordinaria, ivi compresa la trasformazione societaria, avvenga un trasferimento di sede all’estero.
A titolo esemplificativo, si prenda a riferimento il caso di operazioni di scissione totalitaria o di fusioni per incorporazione, in cui una delle società partecipanti all’operazione cessa di esistere per effetto dell’operazione stessa. In tali fattispecie risulta inevitabile la creazione di due diversi periodi ai fini della redazione del bilancio d’esercizio. Se, come spesso accade, in tali circostanze si ha anche un trasferimento del compendio aziendale all’estero, si pone un problema di disallineamento tra periodi di residenza e consolidamento dei dati di bilancio.
Tali fattispecie, infatti, andrebbero coordinate con le disposizioni di cui all’art. 73 del T.U.I.R., secondo cui “ai fini delle imposte sui redditi si considerano residenti le società e gli enti che per la maggior parte del periodo di imposta hanno la sede legale o la sede dell’amministrazione o l’oggetto principale nel territorio dello Stato”.
Pertanto, alla luce di quanto sinora esposto, si noti come in presenza di operazioni straordinarie che comportino il trasferimento dell’azienda, o di parte di essa, all’estero durante il corso dell’esercizio, potrebbe sorgere un disallineamento con quella che è l’attuale modalità di calcolo della Global Minimum Tax, pari al rapporto tra le imposte pagate ed il reddito delle imprese di una singola giurisdizione.
Infatti, ai fini civilistici, sarà necessario redigere un bilancio infrannuale di chiusura dell’esercizio, che determinerà uno specifico reddito prodotto nel paese di partenza. Ai fini fiscali e, dunque, del calcolo delle imposte sul reddito, prevale, invece, il principio del periodo di prevalenza ai sensi dell’art. 73 co. 3 del T.U.I.R.. Ciò potrebbe determinare casi in cui una società, procedendo al solo trasferimento della propria azienda all’estero (anche in assenza di operazioni straordinarie) durante i primi sei mesi dell’esercizio, sarà tenuta alla presentazione di un determinato reddito civilistico, relativo a tale periodo, prodotto nel paese di partenza, contrapposto al reddito fiscale, determinato dalla prevalenza su base annua, nel paese di atterraggio.
Tale criticità, infine, andrebbe anche coordinata con le disposizioni di cui agli artt. 166 e 166-bis del T.U.I.R. in materia di Entry ed Exit Tax. In tali fattispecie, infatti, con specifico riguardo alla tassazione dei plusvalori che emergono al momento del trasferimento, andrebbe chiarito come le disposizioni di cui al testo in consultazione si coordinano con i plusvalori e le DTA calcolate sui risparmi futuri d’imposta. Più nello specifico, infatti, si evidenzia come tale effetto potrebbe essere compensato in maniera automatica in caso di presenza contemporanea sia di una Entry Tax che di una Exit Tax. Al contrario, in caso di assenza di una Exit Tax e di presenza della Entry Tax, il vantaggio ottenuto da quest’ultima risulterebbe, però, annullato dall’impatto delle imposte differite attive nel calcolo dell’ETR.
Sul tema, pertanto, sarebbe opportuno inserire dei correttivi al fine di evitare la fattispecie in cui tali Deffered Tax Assets, nel calcolo dell’ETR, andando ad abbattere il numeratore, determinino un risultato inferiore alla soglia limite del 15%.
Coordinamento delle fattispecie evidenziate nel contributo con l’art. 73 del T.U.I.R. e con gli artt. 166 e 166-bis del T.U.I.R.
Applicazione dell’imposta minima suppletiva.
Concetto di solidarietà tributaria riportato nello schema di decreto legislativo non pienamente pertinente con l’attuale disciplina domestica.
La locuzione utilizzata negli articoli 12 e 13 dello schema di decreto legislativo secondo cui “tutte le imprese localizzate nel territorio dello Stato italiano sono tra loro solidalmente e congiuntamente responsabili per il pagamento, a titolo di imposta minima suppletiva, di un importo pari all’imposizione integrativa attribuita…” dovrebbe riportare al concetto di sostituzione e responsabilità tributaria e non a quello di solidarietà.
Ciò avuto riguardo alla circostanza secondo cui al concetto di solidarietà tributaria è strettamente collegato il verificarsi del presupposto d’imposta in capo a ogni soggetto solidale. Operando per giurisdizione e non per entità costituente, il verificarsi del presupposto d’imposta suppletiva non sarebbe, tuttavia, configurabile in capo a ogni impresa localizzata nel territorio dello Stato.
In conseguenza di ciò, ne conseguirebbe che la solidarietà prevista nello schema del decreto legislativo attribuirebbe, anche se in via solo teorica, il verificarsi del presupposto d’imposta suppletiva in capo a ogni impresa residente.
Ciò potrebbe comportare una gestione complicata dei rapporti infragruppo, non solo con riferimento ad eventuali accordi di consolidamento circa il sostenimento della Top Up Tax, ma anche al fatto che a livello di giurisdizione non si configurerebbe una soggettività tributaria di un’entità costituente che non è tenuta a versare la Top Up Tax.
Inoltre, la decisione della controllante capogruppo di indicare una controllata per il versamento delle imposte potrebbe configurare una sorta di attività dominante, il cui dominio, come avviene in Italia, è sostanzialmente vietato perché mitigato dalla responsabilità degli amministratori delle società del gruppo di perseguire gli interessi della società da essi amministrata.
Si potrebbe, allora, riprendere la forma contenuta nella direttiva UE n. 2523 del 2022 dove, generalmente, si afferma che “gli Stati membri garantiscono che le entità costitutive localizzate nell’Unione siano soggette, nello Stato membro in cui sono localizzate, a un aggiustamento pari all’importo dell’imposta integrativa UTPR”.
Quanto esposto sinora, è finalizzato ad evidenziare che, in capo alle imprese localizzate nello Stato italiano assoggettabili all’imposta suppletiva, potrebbe risultare maggiormente efficiente applicare l’istituto della responsabilità tributaria e non quello della solidarietà, attesa la circostanza secondo cui il responsabile d’imposta possa risultare estraneo al presupposto dell’imposta sostitutiva, la quale potrebbe manifestarsi in conseguenza di imposte sotto la soglia sostenute da consociate del gruppo.
Maggiore efficienza attraverso il riferimento all’utilizzo del concetto di responsabilità tributaria piuttosto che a quello della solidarietà.